La Torre lo aveva chiesto con insistenza e
ottenuto quell'incarico in Sicilia, alla segreteria regionale del maggiore partito
d'opposizione, per riprenderne in mano le sorti e "bonificarlo" da una
situazione di diffuso incancrenimento consociativo col sistema di potere democristiano. Formato
alla scuola di Girolamo Li Causi, Pio La Torre - ora come allora - è uomo-simbolo della
lotta per la terra e della grande battaglia per l'occupazione dei feudi nell'isola; il
cuore e la mente di quel movimento dei lavoratori che negli anni del dopoguerra era
entrato in aperto scontro con i gabelloti ed i campieri, con la mafia agraria e rurale;
uno scontro che a La Torre era costato anche l'arresto e il carcere.
Dopo la stagione romana, La Torre torna in Sicilia anche con un enorme bagaglio di
conoscenze ed analisi sul fenomeno mafioso e sui suoi occulti e ramificati collegamenti
con la politica e la finanza; è in gran parte sua, infatti, la ponderosa relazione di
minoranza presentata al Parlamento al termine dei lavori della prima Commissione
antimafia, in cui elenca minuziosamente per nome e cognome gli autori del sacco edilizio,
i padroni degli appalti, i boss emergenti e quelli da poco spodestati.
Passano i giorni e La Torre, malvisto anche da alcuni settori del PCI isolano per la sua
radicale scelta di trasparenza nell'azione politica, non fa mistero di temere qualcosa o
qualcuno: chiede il porto d'armi, cambia orari e abitudini, guardingo e sospettoso. Sa di
essere nel mirino per tante ragioni: in pieno clima governativo filo-americano, ha
costruito e guida un movimento pacifista attraverso cui riuscito a portare 200.000 persone
a Comiso, per protestare contro l'installazione dei missili americani Cruise; ha messo gli
occhi su affari poco chiari di alcuni imprenditori catanesi a Palermo; guarda con sospetto
all'attività di alcune "cooperative rosse" nel mercato degli appalti pubblici e
dell'agricoltura; ma, soprattutto, segue con crescente attenzione l'evoluzione della
situazione relativa al traffico degli stupefacenti e al riciclaggio del denaro sporco
attraverso i canali dell'alta finanza, dei servizi segreti e dell'alta politica. Si
interessa, in particolare, del caso Sindona e finisce - pare - col mettere gli occhi su
flussi di denaro che portano a Calvi e alle banche vaticane.
Uno squadrone di macellai mafiosi lo massacreranno insieme all'autista Rosario Di Salvo il
30 aprile del 1982, quando sono stati da poco definiti i dettagli per l'insediamento del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Prefetto di Palermo.
Le indagini sull'omicidio segneranno il passo per
nove anni; nove anni all'insegna di perizie fatte male o - addirittura - sbagliate, di
testimoni sentiti dopo anni di inerzia, di negligenze e leggerezze non si sa se
occasionali o premeditate. Solo su impulso della parte civile si scopre che La Torre era
spiato dai servizi segreti "ufficiali" ma anche da un loro organo
"occulto" di cui nulla di più si riesce a sapere; i periti di parte civile -
contraddicendo le perizie ufficiali - scoprono che l'assassinio è stato compiuto con
proiettili militari, mentre si viene a sapere che dei due periti nominati dal Tribunale,
uno sospettato di essere un ex "gladiatore" coinvolto nell'inchiesta sulla
strage di Peteano, mentre il secondo è accusato dal pentito Calderone di essere
"vicino" a Cosa Nostra.
Alla fine, i giudici Giammanco, Falcone, Sciacchitano, Pignatone e Lo Forte depositano la
requisitoria, dedicata per un terzo alla singolare indagine sui possibili mandanti
"interni" al partito stesso in cui La Torre militava. Giovanni Falcone
confesserà più tardi di avere apposto quella firma solo per "disciplina di
servizio" prima di trasferirsi a Roma, dopo avere invano sollecitato approfondimenti
e indagini sul filone "Gladio" al procuratore Giammanco. La chiusura
dell'inchiesta dovrebbe aver fatto calare il sipario sulla strage. O, almeno, così
sperano molti.
Intanto, ancora oggi il difensore della famiglia La Torre, Armando Sorrentino, continua a
dirsi insoddisfatto della condanna dei componenti della "Commissione" mafiosa:
"Quello è stato un delitto eccellente - spiega Sorrentino - e in questi casi anche i
mandanti devono essere eccellenti".
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